l’etichetta è la carta di identità del nostro abito e andrebbe consultata con attenzione. Perché lì sono esposti i materiali, e tra i materiali più dannosi per l’ambiente ci sono sicuramente le fibre cellulosiche (viscosa, modal e rayon).
I vestiti sono da sempre un modo per comunicare chi siamo al mondo. Dalle uniformi da lavoro, alle divise delle forze dell’ordine, fino alle maglie delle squadre, passando per l’alta moda e gli abiti che indossiamo tutti i giorni. (Puoi approfondire la storia della moda qui Underground Fashion Journal).
Eppure, spesso, non conosciamo la storia dei nostri vestiti, i materiali di cui sono fatti, chi li ha prodotti.
Guardare l’etichetta è premura di pochi. Nella maggior parte dei casi acquistiamo i capi in base ad altre prerogative (prezzo, taglia disponibile, gusto, occasione di utilizzo), eppure l’etichetta è la carta di identità del nostro abito e andrebbe consultata con attenzione. Perché lì sono esposti i materiali, e tra i materiali più dannosi per l’ambiente ci sono sicuramente le fibre cellulosiche (viscosa, modal e rayon). Per produrre questi materiali vengono abbattuti annualmente più di 150 milioni di alberi, di cui il 30% proveniente da foreste in via d’estinzione. Ma sull’etichetta è presente anche un’altra importante informazione: il luogo di provenienza.
Vi siete mai chiesti da dove provengano i vostri vestiti? Ebbene, da questa domanda è partita un’indagine dell’Eurostat che ha analizzato l’andamento del commercio di abbigliamento nel 2020. Un anno particolare, devastato dalla pandemia, ma indicativo per comprendere le direzioni future di questo settore.
Il risultato è che sono diminuiti i commerci sia in entrata che in uscita, in pratica abbiamo esportato ed importato meno in tutta Europa, in particolar modo sono diminuite del 14% rispetto al 2019. E questo è dovuto alle misure restrittive messe in atto per prevenire la diffusione della pandemia.
Ma siamo sicuri che quell’etichetta “Made in China” o “Made in Bangladesh” ci dicano solo la provenienza geografica dei nostri capi? O magari ci racconta qualcosa in più sull’impatto ambientale che questi vestiti hanno sull’ambiente?
Un altro dato importante che è emerso dall’indagine è la rosa dei Paesi che risultano essere i maggiori esportatori di abbigliamento in Europa. Al primo posto la Cina, seguita da Bangladesh e Turchia. Quindi è più che probabile che la T-Shirt che tu stai indossando in questo momento provenga da uno di questi tre Paesi. La Cina ha esportato in Europa nel solo 2020 21 miliardi di euro di vestiti, ovvero il 30% del totale dell’abbigliamento extra Ue.
Il Paese che ha importato di più è stata la Germania con quasi 17 miliardi di euro di vestiti non Ue. L’Italia invece è il primo esportatore di vestiti dell’Ue. Nel 2020 abbiamo esportato oltre 10 miliardi di euro di vestiti in paesi non europei.
Ma siamo sicuri che quell’etichetta “Made in China” o “Made in Bangladesh” ci dicano solo la provenienza geografica dei nostri capi? O magari ci racconta qualcosa in più sull’impatto ambientale che questi vestiti hanno sull’ambiente?
Greenpeace si è interessata all’argomento e ha pubblicato un rapporto “Panni sporchi”, in cui indaga proprio le condizioni lavorative e l’impatto ambientale dell’industria tessile in Cina. Il quadro che ne è uscito è inquietante. Le imprese tessili gettano nei fiumi sostanze chimiche bandite in Europa poiché dannose per l’uomo (alchilfenoli, perfluorati e nonilfenoli etossilati), qualificandosi come maggiore causa di inquinamento dei fiumi cinesi.
Il Bangladesh è ormai tristemente noto alle cronache per il crollo del Rana Plaza di Savar, Dacca nel 2013 che ha provocato oltre 1.000 vittime. È considerato il più grande incidente mortale dell’industria tessile mai accaduto.
All’interno del Rana Plaza c’erano banche, appartamenti e alcune industrie tessili. Il giorno precedente, per motivi di sicurezza, l’edificio era stato evacuato e svuotato, tranne i reparti tessili, dove gli operai sono stati costretti ad andare al lavoro nonostante non fossero garantite le condizioni minime di sicurezza. Questo è solo un esempio delle condizioni di degrado e sfruttamento a cui sono costretti gli operai bangladesi. Manodopera che non produce solo abbigliamento low cost, ma che lavora anche per brand come Ralph Lauren, Hugo Boss e Giorgio Armani. Dopo il disastro di Rana Plaza, è partita una protesta dei lavoratori del settore tessile che però ha portato a pochi miglioramenti. È nata anche un’associazione, la Fashion Revolution è la più grande associazione del mondo di attivismo nell’industria della moda ed è stata fondata all’indomani del disastro di Rana Plaza. Combatte al grido: “Siamo coloro che indossano i vestiti, ma siamo anche coloro che li fanno.”
Editor