Sono i coloratissimi, estremi, assurdi anni ’80. Stiamo mangiando un hamburger nel bar “Al Panino” e stiamo attenti a non macchiare di mostarda i nostri jeans Levi’s. Un po’ difficile con addosso i Ray Bann che ci oscurano la vista. Ma lo stile è vita.
Oggi si conclude il nostro viaggio picaresco tra le sottoculture giovanili. Abbiamo attraversato il tempo e lo spazio, Woodstock, Londra, Parigi. Siamo passati per i decenni più importanti del secolo scorso. Tante piccole unità di quel tempo vivo e pieno di stravolgimenti che è stato il ‘900. Il nostro tour de force si conclude in Italia, a Milano. Sono i coloratissimi, estremi, assurdi anni ’80. Stiamo mangiando un hamburger nel bar “Al Panino” e stiamo attenti a non macchiare di mostarda i nostri jeans Levi’s. Un po’ difficile con addosso i Ray Bann che ci oscurano la vista. Ma lo stile è vita. Alla radio passano i Duran Duran, noi siamo con la nostra “cumpa”, dei “ciaina” nemmeno l’ombra. Tutto non potrebbe essere più perfetto.
Siamo i Paninari di Piazza San Babila.
I Paninari sono una sottocultura giovanile nata a Milano nei primi anni ’80 e poi diffusasi in tutta Italia e all’estero grazie ad una massiccia attenzione da parte dei media, primo fra tutti la televisione commerciale e il programma Drive In di Enzo Braschi.
La Bibbia del Paninaro ha un solo, unico comandamento: lo stile è vita. Banditi gli “zarri” o “truzzi” ovvero coloro che comprano merce contraffatta e che quindi sono di conseguenza “cheap”, poveracci. Il Paninaro integralista indossa solo firme, non è impegnato politicamente e il Fashion è l’unica bandiera a cui si sente davvero fedele. Ascolta rigorosamente musica pop, synth pop, dance e new romantic. I suoi idoli: Madonna, Duran Duran, Spandau Ballet, Wham!, Simple Minds, Frankie Goes to Hollywood, Boy George, Culture Club, Pet Shop Boys, A-ha, Europe, Michael Jackson.
Il divertissement esasperato e idealizzato è una reazione, una controffensiva a quegli anni di terrorismo, bombe carta, rivoluzioni e impegno civile che sono stati i 70’s. C’è bisogno di colore, di leggerezza, di rinascere dalle ceneri e di celebrare il boom economico. C’è la sensazione effervescente di un futuro nuovo, a portata di mano, di un mondo scintillante e moderno che guarda all’America e che vuole solo godere della vita, del lusso e…della cocaina.
Il motto dei Paninari è: «funzionare, dimostrare di valere, avere un corpo ed una immagine perfetta, essere alla moda, fare carriera».
Eppure, i Paninari non si vestono come gli yuppie statunitensi, bensì adottano i crismi tipici della classe operaia e contadina americana. A partire dai jeans e dagli scarponi, molto lontani dalle giacche e dai completi.
Vediamo insieme la divisa del perfetto paninaro: piumino d’oca sgargiante di Ciesse, Moncler, Henry Lloyd. Stivali Frye o Durango, oppure scarponcini Timberland, Clarks o scarpe da barca di Docksides by Sebago, & Sperry Topsiders. Un’alternativa sono anche le sneakers Superga, Vans, e più tardi Nike, Converse, New Balance. Jeans Armani, Levi’s, Uniform, Rifle in velluto millecoste, Avirex, Americanino, Stone Island. Felpa American System, Best Company o maglione Marina Yachting, Benetton, Stefanel, Les Copains. Cintura in pelle El Charro. Camicia a quadri Naj-Oleari. Calzini a rombi della Burlibngton.
I colori sono rigorosamente vivaci, chiari e gli accessori sono fluo e hanno fantasie geometriche. I pantaloni sono rigorosamente arrotolati sulla caviglia, i capi sono oversize. Vi ricorda niente? In pratica è la tendenza degli anni ’20 del 2000. Una moda ripresa pari pari soprattutto dagli hipster, senza neanche troppe rielaborazioni. L’unica differenza è che il walkman è stato sostituito dalle Hairpods.
E le Paninare? Loro sono le “sfitinzie” o “squinzie”. Il termine ha però connotazione negativa di “smorfiosa”, “superficiale”, “civetta”, patita della moda. Lina Sotis ne dà questa definizione nel 1986: la squinzia è «La categoria femminile più diffusa del momento. Hanno tutte un imprinting, quello televisivo degli show della seconda serata, vestiti, toni di voce, lunghezze, cortezze e tacco a spillo: nella squinzia tutto, tranne il cervello, è esagerato. La squinzia è quella che vorrebbe beccare di più e becca di meno, è l’eterna tacchinata e mai presa.».
Avete presente il format “Quanto costa il tuo outfit?”. È un trend di internet in cui dei ragazzi/e mostrano i capi che indossano definendo marca e prezzo. Ebbene, neanche questa è una novità del magico mondo dei social. In realtà un’idea del genere era stata già sviluppata in un documentario sui paninari sempre del 1986, in cui una giornalista chiedeva ad un ragazzo di descriverle il suo look e lui, tronfio di orgoglio le rispondeva: «Vuoi sapere anche il prezzo?».
L’ossessione per il prezzo e per la marca è legata all’appartenenza ad una determinata classe sociale, è il simbolo di uno status superiore alla massa. E presto, quel movimento del tutto scevro da implicazioni politiche e ideologiche, ed anzi in contrasto quasi “epicureista” con l’impegno civico, si politicizza, passando da sottocultura giovanile a movimento conservatore e destrorso, nonché machista, seppur “ironico”.
I paninari sono figli naturali degli anni ’80, intrappolati e cristallizzati in un’epoca che non può durare e che è ormai fuori tempo massimo. Eppure, quello dei paninari è il movimento che più influenza le nostre tendenze odierne, che in pratica lo ricalcano in tutto e per tutto. E questo non solo per la vicinanza di tempo (sono passati solo 40 anni), ma anche per il fascino che esso esercita su di noi. Per quell’ideale di edonismo e disimpegno che sembra gridare che vivere con allegria e leggerezza sia possibile.
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